Talvolta le grandi aste internazionali presentano opere sensazionali, che arrivano ad aggiornare e modificare la conoscenza del catalogo dei più grandi pittori del passato. Nell’asta di fine gennaio 2023 di Sotheby’s, tra un Rembrandt, un Sebastiano del Piombo e un possibile Autoritratto di Pontormo (che ha stabilito il record per questo pittore, 10 milioni di dollari), è apparso un Ecce Homo di Tiziano, venduto a 2,1 milioni di dollari (commissioni incluse). L’ultima volta, da Christie’s New York nell’ottobre 2019, era stato aggiudicato per 206.250 dollari, ma presentava l’attribuzione allo studio di Tiziano, uno stato di conservazione peggiore e il titolo Cristo come uomo dei dolori.
Grazie a una fondamentale campagna di analisi scientifiche e un accurato restauro, questo commovente Ecce Homo è invece stato riattribuito al maestro (nell’immagine in copertina il dipinto prima del restauro a sinistra, e dopo il restauro a destra). È un’importante aggiunta al corpus di Tiziano, databile a quegli ultimissimi anni della lunga vita del pittore, così affascinanti e problematici.
A differenza di altri pittori, la cui fama è diminuita dopo la loro morte, la fama di Tiziano quale uno dei più grandi pittori di tutti i tempi non è mai venuta meno, ed è quindi cosa non usuale che un suo dipinto sia andato perduto. In questo caso specifico, la tecnica sciabolata, veloce, macchiata dell’Ecce Homo sembra abbia giocato un ruolo fondamentale.
Già nelle opere della seconda metà degli anni Cinquanta Tiziano aveva adottato sempre più uno stile veloce, specialmente nelle opere più grandi. Marco Boschini, artista, scrittore e critico nella Venezia del Seicento, riporta la straordinaria testimonianza oculare di Palma il Giovane (del quale egli fu collaboratore) sul metodo di lavoro del maestro cadorino:
“[Tiziano] bloccato nei suoi quadri con una massa di colori, che serviva da letto o fondamento per ciò che desiderava esprimere, e su cui poi avrebbe costruito. Io stesso ho visto una tale pittura di fondo, vigorosamente applicata con un pennello carico, di pura ocra rossa, che servirebbe poi da via di mezzo; poi con una pennellata di biacca, con lo stesso pennello poi intinto di rosso, nero o giallo, creava le zone chiare e scure dell’effetto rilievo. E così con quattro colpi di pennello riuscì a suggerire una figura magnifica… Dopo aver così stabilito questo fondamentale fondamento, rivolse i quadri al muro e li lasciò lì, senza guardarli per diversi mesi. Tornato poi da loro, li scrutava come se fossero suoi nemici mortali, per scoprire eventuali difetti; e se trovava qualcosa che non si accordava con le sue intenzioni, come un chirurgo che cura un paziente, rimuoveva un gonfiore o una carne in eccesso, sistemava un braccio se l’osso era fuori articolazione, o aggiustava un piede se era deforme, senza la minima pietà per la vittima. Così operando e riformando queste figure, le portò al più alto grado di perfezione… e poi, mentre quel quadro si asciugava, si rivolse a un altro. E a poco a poco ricoprì di carne viva quelle ossa nude, ripassandole ripetutamente finché mancava solo il respiro stesso… Per gli ultimi ritocchi fondeva con le dita i passaggi dalle alte luci ai mezzitoni, mescolando una tinta con l’altra, oppure con una macchia del dito metteva un accento oscuro in qualche angolo per rafforzarlo, o con una macchia di rosso, come una goccia di sangue, ravvivava qualche superficie, portando così a compimento le sue figure animate. Nelle fasi finali dipingeva più con le dita che con il pennello.” (M. Boschini, Le ricche miniere della pittura veneziana, Venezia 1674).
È questa una descrizione a dir poco esaltante, sicuramente trasfigurata dalla retorica barocca dell’autore, ma corrispondente profondamente alle opere di Tiziano degli ultimi 10-15 anni di attività. Tiziano, dunque, aveva soppresso ogni distanza tra sé e le opere, creando con loro una sorta di dialogo continuo che mostra affinità, per alcuni aspetti, con quanto sappiamo del modo di lavorare degli anni estremi di Michelangelo. Ai suoi occhi quei dipinti non erano incompiuti, ma crescevano per strati successivi, ciascuno in sé autosufficiente, ma in realtà suscettibile di evoluzione. È stato osservato che l’esecuzione stessa di queste opere, il modo in cui crescono, esclude, come accade per certe invenzioni tarde di Michelangelo nei disegni, che si potesse raggiungere un maggiore grado di compiutezza. Sono complete così come appaiono.
Vasari stesso si mostra impressionato dalla grandezza di queste pitture, che sono
“condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie di maniera che da presso non si possono vedere, e di lontano appariscono perfette”, mentre prima Tiziano, da giovane, dipingeva “con una certa finezza e diligenza incredibile”. Mette in guardia dal non scambiare la loro apparente facilità d’esecuzione “perché si conosce che sono rifatte, e che si è ritornato loro addosso con i colori tante volte che la fatica vi si vede. E questo modo sì fatto è giudizioso, bello e stupendo, perché fa parere vive le pitture e fatte con grande arte, nascondendo le fatiche”.
Benché in qualche altro passo l’apprezzamento sia più tiepido, il toscano intende bene anche il valore di questa maniera nella storia del maestro.
Ancora di più nei suoi ultimi anni Tiziano adotta uno stile persino più cursorio e impressionistico, e tra le tante opere vale la pena citare almeno la drammatica e crudelissima Punizione di Marsia (Praga, Národní Galerie). Modi così originali e inaspettati suscitarono incomprensione e sospetti di non autografia, che trovavano una facile conferma nell’età avanzata del maestro. Si chiede di garantire l’autografia delle opere del maestro, si avanzano dubbi sulle sue reali possibilità di dipingere, si fa correre la voce che egli non vede più e ha le mani tremanti (famoso l’episodio dell’Annunciazione per San Salvador a Venezia dove, per rispondere proprio a questi dubbi dei committenti, Tiziano firmò con un doppio FECIT l’opera).
Tutto questo si rivela anche in questo Ecce Homo. La figura di Cristo e del soldato a destra sono quasi del tutto risolte. A sinistra di Cristo si contrappone un passaggio di luce eterea e astratta nel cielo notturno, che è stato variamente interpretato come l’inizio di una terza figura o un irrisolto presagio di una torcia. Questa pittura così sorprendete, violenta, matericamente ricca e povera allo stesso tempo, fa sicuramente presa sulla nostra sensibilità contemporanea, anche per l’apparenza di non finito del dipinto, ma proprio tali fattori non sono stati sempre apprezzati, vista anche la discussione e i dubbi con cui venivano accolte tali opere dai contemporanei di Tiziano, come abbiamo detto. E probabilmente è proprio per questo che quando questo dipinto è apparso all’asta nel 2019, era in gran parte ridipinto, rendendo impossibile qualsiasi studio e attribuzione della paternità di Tiziano. Le modifiche all’opera furono molto probabilmente apportate intorno alla metà del XVII secolo o anche successivamente, ed evidentemente miravano a “finire” la pennellata sciolta e astratta dell’ultima e più evocativa frase della carriera di Tiziano. Le modifiche includevano non solo la copertura dell’abbozzato passaggio a sinistra, ma comportavano anche il ritocco degli incarnati e degli altri dettagli.
Le indagini diagnostiche e la recente ripulitura dell’opera hanno rivelato tutta l’autografia del vecchio Tiziano, le sue pennellate che, “per quanto irrisolte, sono ricche di promesse”. È stato proposto che questa sia una composizione probabilmente lasciata incompleta al momento della morte di Tiziano nel 1576 proprio seguendo le parole che abbiamo riportato del Boschini.
L’imaging scientifico compiuto sull’opera rivela la gestazione creativa della tela. Proprio come Palma il Giovane aveva raccontato a Boschini, e come si vede ad esempio in radiografia Tiziano modificò e poi rimodificò la posizione della verga di Cristo, prima cambiandone l’orientamento e poi modificandone l’angolo, e anche la posizione del braccio destro di Cristo fu cambiata più volte. Non solo evidenti nelle immagini radiografiche, ma anche visibili ad occhio nudo, queste continue revisioni di forma e contorno infondono alla figura di Cristo una drammatica vivacità.